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Goliardia Medioevale - Lauriello

“Gaudeamus Igitur!”
Goliardi e goliardia nell’occidente medievale
Giuseppe Lauriello
Parlare di goliardi oggi nella comune percezione è voler richiamare un mondo scomparso in un’epoca remota e indefinita, di cui resta forse l’aggettivo “goliardico”, quale termine atto ad identificare a volte una gioventù scanzonata, a volte un’azione estroversa, spavalda, eccentrica e, perché no, romantica. Ciò nonostante, questa voce ci resta lontana, naufragata in un tempo brumoso e irreale, palpabilmente distante dalla nostra memoria.
Eppure questi goliardi per tanti aspetti, che nemmeno immaginiamo, sono così vicini ai giovani d’oggi. Quante di quelle che furono le loro aspirazioni, la loro voglia di cambiare il mondo, il loro entusiastico slancio nel godersi la vita richiamano atteggiamenti e realtà della nostra generazione e di quelle che ci hanno immediatamente preceduto?
Ma chi furono i goliardi?
Nel Medioevo e specialmente nei secoli XII e XIII si identificarono con tale nome studenti, chierici e monaci che, insofferenti alla quotidianità stanziale dei conventi e dei centri universitari, lasciavano le abituali residenze e la loro stabile attività intellettuale e spirituale per allontanarsi lungo le vie del mondo alla ricerca di una vita libera, senza vincoli istituzionali e regole sociali, affrontando un nomadismo culturale ricco di esperienze fantastiche e irripetibili.
Goliardi quindi furono questi spiriti errabondi, questi routards dell’indipendenza ideologica, questi ribelli dell’ordine costituito. Uno spaccato della loro foga e dei temi più frequentemente reiterati da questa gioventù festosa e intemperante si ritrova nei “Carmina burana”, un manoscritto del XIII secolo, che ne raccoglie i canti e i componimenti di eterogeneo metro e contenuto, oggi in corso di pubblicazione ad opera dell’editore Rizzoli. Generalmente la mèta preferita fu la frequentazione di poli universitari, di centri di studio di grande rinomanza, dove insegnavano maestri famosi per autorevolezza e dottrina, ma anche destinazioni appetite furono le corti dei principi, le sedi di potenti ecclesiastici, i palazzi di ricchi mecenati, promettenti obiettivi di fortuna, date anche le loro non comuni doti di intraprendenza e il loro spesso solido bagaglio culturale.
In definitiva si chiamò “goliardia” quel complesso di irrequieti comportamenti tipici di una gioventù vivace, florida, esuberante, che, pur espressione esteriore di una sfrenata ricerca di vita gaudente, si scopre apportatrice di un patrimonio di valori e di spinte propulsive tali da accelerare il progresso e le svolte della storia.
Molto spesso questi giovani sono stati identificati in una frangia estremista della verde età, collocati al di fuori delle regole che disciplinano la convivenza sociale, eretici e ribelli, riottosamente adusi ad un’esistenza disordinata, frivola e dissennata. Sono stati considerati quali dissacratori dei valori cristiani della Chiesa, demolitori della sovranità temporale e laica dei principi e regnanti; sono stati comparati ai “demoni” (da cui “goliardi” = Golia = diavolo), sedotti dagli illusori quanto riprovevoli richiami delle osterie, delle bische e dei lupanari. Vino, donne e gioco sono stati eretti a simboli perversi e a idoli accattivanti della loro peregrinante e afinalistica vita, priva di ideali e vuota di interessi, se non orientati al vizio e alla lussuria.
In realtà le cose non stanno proprio così,perché dai componimenti poetici sopravvissuti e dai documenti a futura memoria trasmessi ai posteri, di questi goliardi non traspare solo l’esaltazione dei piaceri della vita e l’invito a godersela fin quando si è giovani; spesso v’è sottesa un’energica rampogna morale, un forte richiamo sulla degenerazione dei costumi e dei rapporti sociali, sulla corruzione, l’avarizia e l’immoralità che serpeggia nelle istituzioni e nel clero del tempo, che incrina la fiducia dei cittadini e insidia il potere e l’organizzazione comunitaria, una situazione intollerabile più volte rimproverata e fustigata.
La goliardia molto spesso si presenta come una schiera di entusiastici sostenitori di un mondo che va cambiando, di critici severi di una cristallizzata realtà feudale non più consona al progresso che va manifestandosi nelle città comunali e nelle sempre più libere e feconde relazioni mercantili. I goliardi sono degli innovatori, aperti ai mutamenti che si schiudono sotto i loro occhi e che si mostrano mirabili proprio nei secoli in cui più forte appare la loro presenza.
In definitiva questo movimento nasce come ricerca di conoscenza, una ricerca legata al trionfo delle università laiche e delle scuole cattedrali e all’intenso bisogno di renovatio che caratterizza l’intero XII sec. Gli studenti seguono i maestri in peregrinante trasferimento dall’uno all’altro centro di studi, consapevoli di essere protagonisti di un momento quasi magico di allargamento del sapere. Questo stesso affinamento culturale, ricco di tensioni che dominano la scena intellettuale, mette in circolazione nuove idee, nuove sensibilità, in poche parole la scoperta dell’individuo, una scoperta graduale, sollecitata dal progressivo risveglio della coscienza.
Tutto ciò è favorito in prima istanza dal girovagare di tanti scolari per le vie d’Europa, che recepiscono e trasmettono accanto alle nuove acquisizioni le nuove interpretazioni del sapere, consapevoli che ogni branca dello scibile può essere affrontata ed elaborata sotto angolazioni diverse e con diversi processi di acculturazione. Forgiatori di tali insegnamenti grandi maestri, che segnano il rinnovamento sociale e culturale del XII sec:
Abelardo, Ugo d’Orleans, Guglielmo di Chatillon, Pietro di Blois, l’Arcipoeta di Colonia, per citare solo qualche docente. Tre le direttrici su cui si muove la letteratura goliardica: la satira, l’amore, il tempo libero. Forti di una ragguardevole erudizione umanistica prevalentemente ancorata agli autori latini come Orazio, Marziale e Giovenale, l’ironia mordace di questi giovani allievi anarchici e severi si rivolge soprattutto all’apparato della Chiesa, incapace di adeguarsi ai tempi, chiusa alle innovazioni e per di più corrotta e venale, invocando il ritorno alla purezza e all’onestà mentale premeva dei precetti evangelici. È una satira che sferza l’ipocrisia di chi predica l’ancoraggio ad una vita spirituale retta, sobria e costumata, ma in pratica adotta comportamenti spregevoli di svilimento dei valori religiosi e di insolente interesse al mercimonio e alla cupidigia dei beni terreni. Ma la gioventù goliardica, come la gioventù di tutti i tempi e sotto tutti i cieli, è anche protagonista di letteratura amorosa, quell’amore che, quando è cortese e raffinato, accende gli animi e rinvigorisce la mente, rendendo delicati ed eleganti i sentimenti, ravvivandoli e nobilitandoli. La stessa sensualità, peraltro, impetuosa e dirompente, che traspira da certi versi, esprime tutta la forza generatrice, creativa e propositiva insita negli anni verdi, quella gioia di vivere che corrobora gli ideali e promuove l’umano divenire.
Ma al piacere dell’intelletto, all’ebbrezza della fantasia, all’abbandono nel sogno non può mancare di converso anche l’indulgere concreto nel godimento quotidiano, il richiamo all’appagamento temporaneo, il cullarsi nel breve allontanamento dalle tristezze del mondo. Ed ecco quel compiacersi in una passione carnale, quell’arrendersi alla voluttà di un bicchiere di vino, quel cedere al brivido della volubilità delle carte da gioco. Questa è la goliardia, a queste finalità si ispirano i goliardi, nel giovanile intento di far germogliare il seme delle magnifiche sorti e progressive.

Si vuole tale fenomeno sviluppato soprattutto in Europa e, almeno in parte, nell’Italia del Nord, perché là prosperano le fiorenti università ed universale è la lingua che vi si parla: il latino, ma, pur se con aspetti diversi, anche il Sud ha avuto i suoi goliardi. Espressione di un patrimonio culturale comune e storicizzazione peculiare di un aspetto della goliardia, quello più raffinato ed elegante, che inneggia all’amore e alla natura, sono i trovatori ed i giullari. I primi, compositori di poesie, che, pur di non elevato valore lirico, ben tratteggiano il mondo aristocratico delle corti feudali e dei palazzi signorili; i secondi sono i cantori di tali sentimenti, gli interpreti della nuova cultura, che, vagando per regge e castelli, diffondono questa visione gentile della vita. E sempre nell’ambito dei goliardi, di questo mondo così pittoresco e variegato, si delinea una particolare generazione di cantori: quella dei fabliaux, delle chansons de geste, dell’epica cavalleresca. Ed ecco i cicli della Tavola Rotonda e dei Paladini di Francia.
Al di là della celebrazione di imprese leggendarie e dell’esaltazione della civiltà occidentale, la glorificazione dei cavalieri medievali viene ad elevare e a risaltare valori di grande slancio umanistico, ma sopiti nei secoli bui: il coraggio, la generosità, la magnanimità, la clemenza, il vigore, la fede, ecc., che aprono alle nuove conquiste letterarie, ma anche umane e sociali dei secoli a venire.
Se scorriamo i nomi di questi trouviers, ci accorgiamo di essere di fronte a personaggi del continente, tutto al più del Nord Italia: Danièle Arnaut, Giraut de Borneille, Bernardt de Ventadorn, Bertrand de Born, Jaufrè Rudel, Rimbaldo de Vaqueiras, Pierre Vidal, Ramon de Tolosa, Folquet de Romans, Rambertino Bulavelli, Lanfranco Cigala, Percival Doria, Bartolomeo Zorzi, Bonifacio Calvo, Sordello da Goito, Turoldo, ecc., molti dei quali sono ospiti di potenti famiglie italiane come gli Estensi, i Malaspina, i Monferrato, i Savoia, i Malatesta, gli Sforza e altri.
A prima vista il Meridione sembra avulso da questo meraviglioso fenomeno culturale che scuote l’Europa. Ma è un rilievo apparente, che trova motivazione nel non compiuto approfondimento di quella altrettanto felice manifestazione letteraria e culturale insieme rappresentata dalla cosiddetta Scuola siciliana di poesia, nobilitatasi alla corte di Federico II, salotto intellettuale, che apre il sipario sulla nostra letteratura nazionale.
I testi di storia letteraria italiana spesso trascurano questo capitolo che introduce il panorama evolutivo del nostro “volgare illustre”, così importante, se visto come esordio di uno sviluppo “in progress” della nostra lingua; lo trattano con frettolosità, limitandosi a pochi accenni e giustifi candosi con lo scarso lirismo dei contenuti. A parte la considerazione che l’approccio alla poesia dipende da sensibilità del tutto personali, la derivazione dei poeti e dei cantori federiciani dai trouviers provenzali e dai giullari delle corti circumpadane e d’oltralpe appare non contestabile per le evidenti connessioni tematiche, linguistiche e di espressione, che ne fanno gli esponenti meridionali di una cultura dispiegatasi nel continente e diffusasi al sud attraverso una non ristretta cerchia di scambi e di modelli di vita. Pier delle Vigne, Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini, Rinaldo d’Aquino, Jacopo Mostacci e tanti altri non sono che la voce mediterranea dei cantori provenzali, gli epigoni di una goliardia continentale, di cui esprimono la medesima insofferenza e la stessa voglia di vivere.
I rimatori poeti accreditati a Palermo peraltro provengono da varie regioni italiane, messaggeri di gusti e di inclinazioni che abbiamo già sentito riecheggiare tra i goliardi – trouviers e che hanno conquistato l’Europa. Esempio paradigmatico è Cielo d’Alcamo, questo misterioso poeta del XIII sec., che Santorre de Benedetti defi nisce: “poeta colto del Mezzogiorno continentale, che, pur avendo familiari le composizioni francesi e provenzali, si muove liberamente guidato da uno spirito realistico e da un vivo senso dell’arte”. E che Cielo sia stato un goliardo trouvier e quindi un riferimento di questa forma di cultura che attraversa l’Europa del XII-XIII sec. giunge da un’opportuna ipotesi di Crespi Lagorino, che lo identifi ca in uno studente siciliano acculturato a Salerno nell’ambito della Scuola Medica, uno studente girovago, trouvier e giullare, accolto
alla corte di Palermo, nel cui raffi nato centro di belle arti può far valere la propria formazione intellettuale di scuola umanistica, aperta al linguaggio fiorito e al garbo della poesia cortese.
Il celebre contrasto “Rosa fresca aulentis­sima” attribuitogli nel Cinquecento dal Colocci è un tipico modello lirico di quella poesia che è andata affermandosi in Europa e in Italia in quegli anni e che ci consente di comprendere un’epoca, che, per certi versi, più volte si ripete nella storia dell’umanità e che sotto diversi aspetti, ma con identici intenti, stiamo vivendo oggi senza accorgercene e quindi senza la curiosità di un affascinante raffronto.
Giuseppe Lauriello
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